un grande classico e tre saggi sulla letteratura, da parte di grandi autori!
Nella finora inedita traduzione di un poeta I fiori del Male di Baudelaire, e un saggio di Alfredo Calasso, La folie Baudelaire. Per coronare questa carrellata nella letteratura, un altro illuminante saggio di Pietro Citati, La Malattia dell’infinito e Claudio Magris con Alfabeti.
Charles Baudelaire
I fiori del male, Marsilio
introd. e commento di Luca Pietromarchi
traduzione di Giorgio Caproni
I fiori del male
“I Fiori del male sono lo specchio, lucido fino alla crudeltà, dei contrasti fra un moralismo tutto di comodo e la disperata aspirazione a una morale assoluta” Giorgio Caproni
Questa edizione presenta I Fiori del male e le poesie condannate nell’inedita traduzione di Giorgio Caproni, alla quale egli attese fino ai suoi ultimi giorni.
Una traduzione esemplare che costituisce il commosso omaggio di una delle grandi voci della lirica italiana al capolavoro di Baudelaire, sottesa dall’intento di prestare al lavoro di traduzione il senso più alto di ricreazione poetica.
Il volume è accompagnato da un’ampia introduzione di Luca Pietromarchi e da un commento che riserva a ogni poesia un’interpretazione tematica e stilistica precisa quanto elegante, destinata a fornire un indispensabile strumento critico per l’intelligenza del più tragico e commovente canzoniere moderno.
Charles Baudelaire nasce a Parigi il 9 aprile 1821, lo stesso anno di Flaubert e Dostoevskij. Perduto il padre all’età di sei anni, segue una carriera scolastica irregolare, contraddistinta da premi di versificazione latina ed espulsioni per indisciplina. Le sue frequentazioni parigine preoccupano la famiglia che lo fa imbarcare per le Indie. Giunto a La Rèunion, Baudelaire interrompe il viaggio e torna a Parigi. Alla maggiore età entra in possesso dell’eredità paterna che rapidamente dissipa in lussuosi capricci. Ridotto in povertà cerca sussidio in diverse attività letterarie. La pubblicazione dei Salons nel 1845 e 1846 ne fa uno dei padri della critica d’arte moderna, mentre le sue prime poesie lo accreditano tra i più dissacranti poeti della bohème parigina.
La rivoluzione del 1848 lo vede sulle barricate, animato da un rancore sociale che l’avvento del Secondo Impero volgerà in malinconia personale e compassione per gli sconfitti. Ha intanto iniziato la traduzione in francese dell’opera completa di Edgar Allan Poe.
Nel 1857 esce la prima edizione de I Fiori del male, immediatamente condannata per oltraggio alla morale.
Alle poesie in versi si alternano saggi (Il pittore della vita moderna, Marsilio 2002) e componimenti in prosa (Lo spleen di Parigi). “Sono stanco della Francia e desidero dimenticarla”: nel 1864 Baudelaire si trasferisce a Bruxelles, dove le sue conferenze sugli stupefacenti (I paradisi artificiali) cadono nel più assoluto disinteresse. Colpito da emiplegia è riportato a Parigi, dove muore il 31 agosto 1867, senza aver ritrovato la parola, ma lucido nel suo supplizio.
Giorgio Caproni (1912-1990), la cui opera poetica è raccolta nei “Meridiani” Mondadori, è stato uno dei grandi traduttori italiani della letteratura francese. Si ricordano, in prosa, la sua traduzione di Morte a credito di Céline e de Il tempo ritrovato di Proust, nonché dell’opera in versi di René Char e di Apollinaire, mentre la scena italiana gli deve le versioni del teatro di Jean Genet.
Luca Pietromarchi insegna lingua e letteratura francese all’Università di Roma Tre. Ha studiato l’opera francese di Alberto Savinio (Dal manichino all’uomo di ferro, Milano 1984), per quindi rivolgersi all’esotismo romantico (L’illusione orientale, Milano 1990) e alla poesia di La Tour du Pin (Les Anges sauvages, Parigi 2001). Per la Letteratura universale Marsilio ha curato l’edizione di La regina del Mattino di Gérard de Nerval (1992).
La folie Baudelaire, di Roberto Calasso, Adelphi (36 euro)
Al centro di questo libro si trova un sogno dove l’azione si svolge in un immenso bordello che è anche un museo. È l’unico suo sogno che Baudelaire abbia raccontato. Entrarvi è immediato, uscirne difcile, se non attraversando un reticolo di storie, di rapporti e di risonanze che coinvolgono non solo il sognatore ma ciò che lo circondava. Dove spiccano due pittori di cui Baudelaire scrisse con stupefacente acutezza: Ingres e Delacroix; e altri due che solo attraverso di lui si svelano: Degas e Manet. Secondo Sainte-Beuve, perdo e illuminato, Baudelaire si era costruito un «chiosco bizzarro, assai ornato, assai tormentato, civettuolo e misterioso», che chiamò la Folie Baudelaire («Folie» era il nome settecentesco di certi padiglioni dedicati all’ozio e al piacere), situandolo sulla «punta estrema della Kamčatka romantica». Ma in quel luogo desolato e attraente, in una terra ritenuta dai più inabitabile, non sarebbero mancati i visitatori. Anche i più opposti, da Rimbaud a Proust. Anzi, sarebbe diventato il crocevia inevitabile per ciò che apparve da allora sotto il nome di letteratura.
Qui si racconta la storia, discontinua e frastagliata, di come la Folie Baudelaire venne a formarsi e di come altri si avventurassero a esplorare quelle regioni. Una storia fatta di storie che tendono a intrecciarsi – finché il lettore scopre che, per alcuni decenni, la Folie Baudelaire è stata anzitutto la città di Parigi.
Pietro Citati, La malattia dell’infinito, Mondadori, il primo capitolo del libro on line e la scheda del testo:
http://www.librimondadori.it/web/mondadori/mediabox/sfoglialibro?_SfogliaLibro_WAR_SfogliaLibro_idScheda=ISBN_978880458305
“L’infinito è nemico dell’uomo” dice Joseph Conrad nel romanzo che inaugura la letteratura del Novecento, Lord Jim. La “malattia dell’infinito” è il tema segreto, profondo come un fiume sotterraneo, che Pietro Citati ha scelto per comporre la sua vasta e fascinosa conversazione sulle opere e sulle esistenze dei romanzieri, dei poeti, degli artisti del ventesimo secolo. Il desiderio d’infinito, lo sguardo appuntato al di là dei consueti orizzonti umani, popola di una folla di stranieri la letteratura occidentale. Il pensiero della propria inappartenenza accompagna lo scrittore novecentesco come una musica cupa e in sordina, dando eco e risonanza ai suoi libri. Così, D’Annunzio è “il grande Straniero, che occupava come un dio fastoso e corrucciato le stanze immaginarie del Vittoriale”; Robert Walser è un escluso che bussa e bussa alla porta della vita; Pirandello “uno straniero in un luogo straniero “; Robert Musil ha la sensazione che “tra lui e il mondo si fosse stabilita per sempre ¿ una montagna di ghiaccio”; Marina Cvetaeva “aveva deciso di essere straniera sulla terra, come una gnostica”; Gottfried Benn è un “abitatore di stanze singole ¿ che vive abbandonato al silenzio e al ridicolo”. Persino Giorgio Bassani, un autore che a lungo sembra conservare “la grazia e la gioia di vivere delle persone normali”, diventa quasi all’improvviso “quello che non sapeva di essere: un ebreo, un paria, uno straniero”. L’artista del Novecento – che sia uno scrittore, o un regista come Dreyer e Chaplin, o un ballerino come Nijinsky – abita la tenebra, racconta l’ombra, la follia, la debolezza, la morte. Uno dei numi tutelari del secolo, Carl Gustav Jung, “comprese che il mondo della luce non era fatto per lui: doveva abitare nel mondo della notte “; Fernando Pessoa, come tutti i grandi poeti moderni, “ascoltava il mare di Tenebra”; Virginia Woolf deve “discendere, gradino per gradino, nel pozzo, nelle acque profonde, negli abissi delle tenebre e della follia ¿ sfruttare l’ombra ¿ affondare di nuovo nella tenebra, trovando in essa la ragione e il fondamento della sua arte”. Karen Blixen sembra a tratti devota alla riconciliazione, all’armonia del mondo, ma poi conferma anch’essa, negli enigmatici finali dei racconti, il suo invincibile attaccamento alle ironiche divinità dell’ombra. Come forse non ha fatto in nessuno dei suoi libri precedenti, nella Malattia dell’infinito Pietro Citati parla anche di sé. In un saggio su Hofmannsthal nasconde la più precisa definizione breve che si possa dare del suo metodo di scrittore e di critico: “Un’anima squisita e melanconica si introduceva nelle cose: per un momento, provava un brivido davanti al mondo estraneo; e poi, lentamente, con arti da polipo e da ragno, se ne appropriava, lasciando sulla carta una bella forma ibrida, che in parte aveva i colori di Hofmannsthal in parte i colori del libro o dell’oggetto nei quali si era insinuato”. Nei saggi affettuosi, commossi, maliziosi dedicati agli amici che ha avuto, con cui ha lavorato (fra tanti: Cioran, Fellini, Gadda, Fruttero e Lucentini, Calvino, Manganelli, Bertolucci), ci dà, sospettiamo, quanto di più prossimo a un’autobiografia sia lecito aspettarsi da questo scrittore che da sempre tenta di scomparire dietro l’impersonalità del saggista.
Magris Claudio
Alfabeti
Saggi di letteratura
Garzanti
«Una volta, in Cina, una studentessa dell’università di Xi’an mi ha chiesto cosa si perde scrivendo. Ardua domanda kafkiana. E leggendo? Una volta Borges ha detto che lasciava ad altri di gloriarsi dei libri che avevano scritto e che la sua gloria erano invece i libri che aveva letto.»
Alfabeti è un viaggio tra i libri e nella letteratura – o meglio, uno dei mille possibili viaggi alla scoperta dei libri, dei loro autori e di noi stessi. Il percorso inizia dalle letture d’infanzia e d’adolescenza, da quei libri fondanti che contagiano il piacere della lettura, dando il sapore del racconto e dell’avventura, aprendo alla scoperta del mondo.
In Alfabeti ci sono i libri che ci hanno formato, che ci hanno ferito e insieme hanno saputo curare la ferita. I libri che permettono di conoscere e ordinare il mondo e quelli che ne svelano il caos travolgente e distruttore, l’incanto e insieme l’orrore. I libri che fanno balenare la salvezza e quelli che si affacciano sul nulla. Soprattutto quelli che allargano i confini della letteratura e rimandano aldilà di essa.
Al cuore di questo volume è la crisi che dal Novecento getta le sue ombre e le sue illuminazioni fino a noi. Magris ne scava le radici nel Romanticismo – risalendo peraltro all’antichità e immergendosi nelle letterature anche più lontane e periferiche – e la insegue nelle tragedie che hanno segnato e segnano la nostra storia recente.
Alfabeti parla soprattutto di libri che s’intrecciano e si scontrano con la vita e con la Storia per tornare poi alla vita, plasmando gli sguardi, le idee, i sogni e le esistenze quotidiane dei loro lettori. Libri che trascendono anche la propria perfezione estetica per dire il dolore come la bellezza, l’amore come l’abiezione.
Il libro coglie soprattutto le contraddizioni talora tragiche della letteratura e dei suoi autori, capaci di far capire a tutti cosa sia l’umanità ma anche di violarla colpevolmente. Anche per questo il percorso si conclude con un’appassionata e lucida riflessione sul rapporto della letteratura con l’etica e con la politica, riflessione che mette in luce contemporaneamente la necessità dell’impegno e l’altrettanto necessaria irresponsabilità della poesia
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