Esordire a settant’anni e arrivare in finale al Premio Strega (dopo aver vinto il Campiello Opera Prima) non è cosa da tutti. Non è da tutti anche essere colpiti da una rara malattia neurologica, come è capitato all’autrice, decisa a raccontare il suo percorso umano in questo libro. Non è certo facile parlare di un testo di questo tipo, recensirlo, ma L’ultima estate colpisce davvero fin dalla prima pagina: trabocca di vita, pur senza risparmiare l’emozione al lettore. Rifugge dai clichè e dalle lamentele, non indugia nei fronzoli o nella descrizione del dolore, pur sempre presente: ne esce un libro perfettamente bilanciato e accompagnato da una forma di ironia; una testimonianza sì delle fatiche quotidiane con cui un malato deve confrotnarsi, ma anche di affetto per l’esistenza,per l’incanto del mondo che ci circonda. Ci piacerebbe davvero vedere questo testo incoronato dallo Strega!
Cesarina Vighy, L’ultima estate, Fazi editore
Da dove arriva la voce di Zeta? Apparentemente dal luogo più inabitabile e muto: la malattia, in quel punto estremo che toglie possibilità, respiro, futuro. Ma è solo apparenza: questa voce proviene dal nucleo più irriducibile e infuocato della vita. Che non tace, non cessa di guardare e amare. E anzi, comincia qualcosa: a scrivere. È fragile l’equilibrio che genera queste pagine. Per Zeta qualsiasi gesto ora è enorme, la fatica non solo fisica è in ogni momento fatale. E i ricordi sono uno squarcio lacerante nella memoria di una vita tenacemente irregolare: la nascita fuori dal matrimonio della “bambina più amata del mondo”, l’infanzia sotto le bombe, Venezia splendida e meschina, il primo disastro sentimentale e poi Roma becera e vitale, l’esperienza della psicanalisi, l’avventura del femminismo, il cammino della malattia. E sempre la coriacea e gentile difesa della propria individualità, l’irrisione delle tribù e delle cliniche cui ha rifiutato di appartenere. Così la storia della sua vita scorre laterale, vissuta intensamente ma mai accettata, come non fosse mai meritevole di piena identificazione. Con una lingua nitida, feroce, mai retorica, attraversata da una vena di sarcasmo che non concede nulla alla pietas, questo romanzo d’esordio scritto a settant’anni affronta il più evitato degli argomenti: la sofferenza. Mai, lungo queste pagine, si può dimenticare che l’autrice è malata, gravemente. Però basta uno spiraglio della finestra in cucina a far entrare un platano o un merlo.
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