Hotel Calcutta ci arriva da qualche decennio fa, ma non ha certo perso verve! Vista la frenetica attività degli editori nel proporre nuovi talenti dal subcontinente indiano, è un vero e proprio piacere scoprire anche opere del passato mai proposte al pubblico italiano (anche in lingua inglese il testo è stato tradotto da poco, nel 2007). Hotel Calcutta ha tutte le caratteristiche dei buoni romanzi: la capacità di condurre il lettore in un altro luogo, in un altro tempo, di renderlo partecipe delle avventure del protagonista e di affezionarsi ad esso, di essere brulicante di vita!
Hotel Calcutta
, Sankar, Neri Pozza
Anni Cinquanta: Calcutta si chiama ancora Calcutta e vive gli ultimi splendori del suo recente passato coloniale. Nella «striscia d’oro», la zona della città che gli inglesi chiamano Esplanade e gli indiani Chowringhee, il centro della vita mondana e dei grandi alberghi, si aggira Shankar, un ex babu, un giovane impiegato di un avvocato inglese dell’alta corte, anzi, per essere precisi, «dell’ultimo avvocato inglese dell’alta corte di Calcutta». L’illustre esponente del foro imperiale britannico è morto e il ragazzo si è ritrovato di colpo nel deserto di povertà e penuria da cui viene, e che credeva di essersi lasciato definitivamente alle spalle. Per allontanare lo spettro della fame, vaga per la città cercando di vendere cestini per la cartastraccia fabbricati da un giovanotto di Madras, che oltre ai cestini non possiede altro che due paia di calzoni e una sudicia cravatta. Per i dannati della terra come Shankar, basta il minimo temporale a distruggere l’oasi. Ma per fortuna non è sempre così. In un giorno in cui sonnecchia al parco di Chowringhee, si imbatte in uomo dalla pelle color mogano, lucida come le scarpe che hanno ricevuto il trattamento dai lustrascarpe di DharmataJa. E il detective Byron, il grande investigatore: per lui qualunque caso, per quanto complicato o misterioso, è immediatamente «chiaro come la luce del giorno, trasparente come l’acqua». Byron gli trova un lavoro nell’albergo più antico e prestigioso dell’Esplanade: lo Shahjahan Hotel.
Dopo un “quasi classico”, ecco invece un palpitante ritratto della nuova India, sempre da Neri Pozza
Radhika Jha
Il dono della dea
Neri Pozza
Laxmi ha occhi grandi e scuri, naso corto e sottile, labbra piene come le vele di una barca al vento. Quando si china il suo corpo si incurva dolcemente e si arrotonda nei punti giusti, mentre i capelli deliziosamente neri e folti si muovono come una nidiata di serpenti.
Laxmi è anche una ragazza ostinata, molto ostinata. Suo padre aveva un sogno: far fruttare i miseri quattro ettari di terra ereditati come se fossero dieci utilizzando le nuove tecniche agricole. Per realizzarlo è precipitato nella rovina più nera per mano dell’usuraio di Khargaon, il villaggio nel cuore dell’India rurale dove la famiglia di Laxmi vive da generazioni. Una rovina dall’esito tragicamente scontato: il suicidio.
Dalla sua morte, Laxmi ha coltivato un solo scopo nella sua vita: dimostrare che il sogno di suo padre non era una chimera. Per questo ha frequentato le scuole secondarie, poi il college a Mandleshwar, quindi un politecnico dove ha studiato agraria. Per questo, a venticinque anni, è diventata una creatura aliena a Khargaon, una giovane donna istruita da guardare con sgomento e orrore.
Alla mamma di Laxmi non è restato altro che spedire un sensale nel villaggio di Nandgaon, nel cuore della foresta.
Veloce come una freccia avvelenata, il matrimonio combinato ha condotto Laxmi nella casa di Ramu. Un misero edificio con un tetto di paglia, con un uscio di legno scheggiato e consunto, senza finestre, una tenda rattoppata all’entrata. In un mondo fatto di roccia e acqua, immerso in un silenzio duro e spietato, dove non si sente neppure il colpo di tosse di un bimbo o il latrato di un cane, Laxmi trascorre il tempo accovacciata nella veranda a contare i chicchi di riso in un vassoio di vimini, come una povera donna che non ha molti compiti domestici, non ha barattoli di conserva da mettere al sole, polli da nutrire, bimbi da accudire, panni da lavare e utensili da riordinare.
Ramu, suo marito, dopo essersi legato un cencio attorno al collo, ogni pomeriggio porta le capre al pascolo nei campi che circondano la foresta.
In un giorno di cielo cupo e di vento, torna con una strana creatura con un orecchio lacero, privo di un pezzo di pelle: una vacca… «un dono della dea» per loro due che non hanno niente…
Romanzo corale, con un’incredibile varietà di personaggi – Darbari il barbiere troppo intelligente per il suo umile rango, Jaiwant Rane, il maestro di scuola con mani e piedi troppo grossi per il suo corpo minuscolo e macilento, Saraswati Rane, il sacerdote brahmano con l’alito pesante nonostante la dieta vegetariana, Gopal Mundkur, il capovillaggio che ogni giorno canta il più antico dei mantra in onore dell’Uno, Manoj Mishra e Pratima, i magnifici alter ego di Laxmi e Ramu – Il dono della dea è una grande opera sul cruciale e delicato passaggio alla modernità di un antico e glorioso paese.
Dall’autrice dell’Odore del mondo, «un magnifico romanzo su ciò che sta trasformando il cuore e il corpo dell’India».
The Independent
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